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lunedì 20 aprile 2015

La scuola alcologica itinerante



Il dottor Nunzio Lanza, educatore della ASP di Catania e presidente Arcat, affronta l'intervento educativo in tema alcologico portato sul territorio con le metodologie dei club.

Intervenire sul territorio



La dottoressa Stefania Pirazzo, dell'associazione Logos di Salerno, affronta il tema della promozione della salute e dell'intervento in generale sul territorio.

Metodo Stanislavskij



In questa simulata la dottoressa Livia Scichilone fa la moglie preoccupata, ed il vostro webmaster fa il marito alcolista riottoso. Mi sono divertito moltissimo :)

Questions & Answers

Seconda riflessione



Seconda presentazione, con il dott. Giuseppe La Rocca del SerT di Catania 2, anche lui componente dei direttivi della SITD e della SIA.

Al supermarket



Inizia a relazionare Michele Parisi, medico responsabile del SerT di Nicosia ma anche presidente regionale della Società Italiana di Alcologia (SIA) e componente del nostro direttivo regionale.
La diapositiva che presenta è autoesplicativa :)

Inizia il seminario sull'alcolismo



Inizia il Seminario sull'alcolismo. Un po' in ritardo, a causa della devastazione delle strade siciliane, e con tanti che dal palermitano non sono potuti arrivare.
Cercheremo di fare il meglio che possiamo...

martedì 7 aprile 2015

Schema di trattamento con baclofene per l'alcolismo



Sono stato contattato dall'associazione Olivier Ameisen, un'associazione francese che promuove la ricerca e l'uso del baclofene nella terapia dell'alcolismo, per tradurre in Italiano qualcosa del loro materiale scientifico.

Ecco il primo lavoretto, e cioè lo schema riassuntivo di come condurre il trattamento secondo l'esperienza dei clinici francesi e delle associazioni dei pazienti. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Bisogna tener presente che, al contrario che in Francia, in Italia il baclofene non è registrato per l'uso nell'alcolismo, e quindi si applica la normativa sull'off-label (per quel poco che ne so, legge 94/1998 e successive modifiche e integrazioni). All'ultimo congresso nazionale SITD di Roma si è parlato delle possibilità che in Italia si giunga ad una registrazione, ma finora silenzio.

Come già iniziato dalla presidenza precedente, sarebbe bello che la SITD nazionale si spendesse per favorire, da parte dell'agenzia nazionale regulatoria, una qualche forma di riconoscimento dell'uso di questo farmaco nell'alcolismo e in altre dipendenze ove secondo le esperienze cliniche può essere efficace.

Ernesto de Bernardis - SerT di Lentini

Verbale del direttivo del 28-3-2015

SEZIONE SICILIANA SITD
VERBALE RIUNIONE DIRETTIVO DEL 28/03/2015

Giorno 28/03/2015 alle ore 11.00 presso i locali del Sert di Lentini  inizia la riunione del Direttivo Regionale della SITD-Sicilia.
Sono presenti il Presidente dott. La Rosa, i componenti: dott. Falco, dott. Romano, dott.Pintus, dr. Marrella, dott. Brogna, sono assenti il dott. Russo, il dr. Busà, dott. La Rocca e dr.ssa Di Cristina; sono presenti, inoltre, il segretario dr.  Spinnato, il consigliere nazionale dr. Gionfriddo e il dott. De Bernardis in qualità di Coordinatore del Comitato Scientifico, partecipanti al Direttivo senza diritto di voto.
Il Presidente dr. La Rosa verificato il raggiungimento del numero legale da inizio ai lavori del Direttivo.
Il Presidente avvia la discussione sul primo punto all’ordine del giorno: stato della organizzazione delle attività formative per il 2015. Il seminario sull’alcol si svolgerà regolarmente il 20 di Aprile al Cefpas di Caltanissetta, come riportato sul sito SITD che ha già aperto le iscrizioni che sono gratuite per i soci SITD 2014 e 2015.
Il Presidente inoltre informa che la copertura economica attuale non consente di effettuare sia i seminari su cocaina e doppia diagnosi che il Convegno Regionale per cui occorre operare delle scelte. Dopo discussione il Direttivo decide all’unanimità di concentrare le risorse sul Convegno Regionale; peraltro alcuni finanziamenti sono vincolati per questo evento per cui la scelta è in qualche modo obbligata. In relazione agli impegni presi con gli iscritti 2014 per i seminari si decide di rendere gratuita la partecipazione al Convegno Regionale oltre che agli iscritti 2015, anche per gli iscritti 2014 che non avessero rinnovato l’iscrizione.
Il dr. Gionfriddo riferisce in merito all’accordo con il presidente della SIP (Società Italiana di Psichiatria) di riservare a SITD Sicilia l’organizzazione di un simposio all’interno del convegno nazionale SIP che si terrà nell’autunno 2015. Si decide di dedicare il Simposio alla Doppia Diagnosi in modo da recuperare parzialmente una delle proposte formative che non si riescono a realizzare. Su proposte del dr. De Bernardis si decide di chiedere al presidente SIP di consentire l’accesso gratuito al Simposio agli iscritti SITD. Si decide infine sempre all’unanimità di rinviare al 2016 il seminario su cocaina.
Il dr. Gionfriddo riferisce inoltre su alcune decisioni assunte a livello nazionale in merito alla organizzazione degli eventi formativi e ai rapporti con i provider: andrà rivista l’organizzazione dei convegni regionali poco sostenibili dal punto di vista economico; le sezioni regionali sono autonome nella organizzazione degli eventi e nella scelta del provider se attingono a risorse autonome finalizzate alla organizzazione degli eventi e al 30% dell’importo delle iscrizioni della propria regione come da statuto. La tesoreria nazionale potrà venire in soccorso delle sezioni regionali nel caso in cui il provider sia Publiedit che normalmente gestisce gli eventi nazionali SITD in virtù di accordi precedentemente stipulati, ciò nelle more che a livello nazionale si ridefinisca il rapporto con Publiedit che dovrebbe andare in scadenza quest’anno.
Si porta inoltre a conoscenza che in autunno ci sarà un Convegno Monotematico Nazionale a Milano.
Per l’organizzazione del Convegno Regionale, che si terrà in autunno a Messina, si decide quindi che il Presidente di concerto con il dr Russo, organizzatore del convegno, prepari una analitica dei costi da sottoporre a diversi provider in modo da scegliere l’offerta più vantaggiosa.
Il dr. De Bernardis propone la possibilità per il futuro di valutare alternative diverse nelle proposte formative (videoconferenze, FAD ecc.)
In riferimento al secondo punto all’ordine del giorno si porta a conoscenza del coinvolgimento di alcuni soci della SITD Sicilia nei gruppi di interesse nazionali ed in particolare:
il dr. Gionfriddo coordinatore del gruppo su Doppia Diagnosi, il dr. Russo coinvolto nel gruppo su Progetti di Ricerca, il dr. Romano nel gruppo sul rapporto con le Comunità Terapeutiche, il dr. De Bernardis nel gruppo sulla Visibilità, il dr. La Rosa nel gruppo su Psicostimolanti.
il dr. Gionfriddo informa della convocazione della Assemblea Nazionale il 16 Aprile c.a. a Roma.
Si fissa il prossimo direttivo a Gela il 9 maggio alle ore 10.30
il Direttivo si conclude alle ore 13.00
Il Segretario                                    Il Presidente
GIAMPAOLO SPINNATO                  PLACIDO LA ROSA                                           

mercoledì 1 aprile 2015

Territori e comunità

Il contributo che segue è opera di Vinicio Romano, socio e componente del direttivo regionale, ed è stato presentato al Convegno "Le Comunità Terapeutiche: nuove realtà e nuove prospettive" tenutosi alla comunità Sentiero Speranza di Biancavilla lo scorso 20 marzo 2015.

*  *  *

Territori e comunità.

Le nuove e mutevoli tendenze della popolazione relative ai consumi di sostanze e non, hanno prodotto nuove domande di cura, costituendo ulteriori sfide che coinvolgono tanto i servizi (i Sert in particolare e le comunità) quanto la società globale. Anche l’idea di cura e di Salute sono cambiate all’insegna del diritto alla salute per tutti, tra cui l’inserimento nei LEA di patologie non considerate fino a pochi anni orsono.  Tra una dipendenza e l’altra, nonostante le teorie unificanti sul piano neurobiologico, si delineano con evidenze maggiori, delle procedure differenti, almeno riguardo alla adeguatezza di questo o quel trattamento. Si è manifestato dunque un  territorio di esplorazione e di sperimentazione, di particolare interesse e di attività, verso nuove sinergie e nuovi intrecci tra le strutture e gli istituti che, a vario titolo, sono deputati a studiare e ad affrontare compiti terapeutici e riabilitativi.
Un’altra corrente di pensiero è rivolta al ruolo del “territorio” in senso sociologico come luogo dove le persone agiscono e si muovono, sia come luogo privilegiato del marketing sociale orientato alla prevenzione dei consumi sia come risorsa, non solo aggiuntiva, delle strutture riabilitative e di cura.
Una riflessione sul cambiamento delle comunità terapeutiche non può prescindere  dalle domande di cura e da nuovi modelli di elaborazione teorici e pratici. L’apporto di modelli scientifici potrà avere una rilevanza sui trattamenti terapeutici e riabilitativi( per esempio il modello Soranzo).  
D’altra parte è necessaria una rilettura della comunità, o delle comunità come strutture  che hanno una storia,  un processo evolutivo e le esperienze di tanti operatori maturate negli anni.
In tal senso possiamo analizzare alcune premesse che riguardano la comunità terapeutica come spazio e come luogo, che interagisce con il Territorio, ma al cui interno accadono “cose”, talora banali, talora decisamente complicate in un vortice temporale e teorico-pratico. Infatti, il lavoro dentro le comunità ha mostrato negli anni limiti e possibilità, legate ora alla complessità delle problematiche e delle persone, ora all’uso stesso del trattamento comunitario declinato in modi e procedure abbastanza differenti.
Una prima limitazione si trova nella stessa definizione di “ Comunità per tossicodipendenti”  diversa da “Comunità per persone con problemi di dipendenze patologiche e addiction “ che renderebbe più chiaramente le potenzialità assistenziali in termini di trattamenti..


Un’altra riflessione sul paradigma della  “cosa” comunità in sé stessa, è riferibile al suo possibile significato potenziale come luogo di trattamenti  intesa come luogo rassicurante e sicuro (il riparo, il rifugio), dove è fondamentale il farne parte e il viverci dentro con altre persone, non numerose, che hanno caratteristiche comuni, tali da creare una identità degli appartenenti per storie, bisogni, trattamenti e obiettivi da raggiungere, tramite lo sviluppo di un insieme di relazioni strette e solidali, di coinvolgimenti emotivi, spesso di ri - attualizzazione di esperienze di matrice familiare o reparenting.
L’idea di comunità luogo rassicurante e sicuro è sempre più difficile da sostenere, basti pensare all’aumento di utenti con poliabuso/polidipendenza (con relativa sovra stimolazione fisica e psichica) associata a varie forme di alienazione, talora classificabile in diagnosi psichiatriche.
Anche le procedure di pene e trattamenti alternativi da effettuare in regime residenziale comunitario hanno  delineato una comunità, una “cosa” appunto in cui l’idea di luogo rassicurante e caldo deve cautelativamente essere rivisitata.
Altro fattore intervenente è il diritto alle cure, specie mediche e il più facile accesso alle stesse: nella residenzialità comunitaria gli utenti che si prendono cura del loro corpo per esigenze medico-chirurgiche o per sostituzione di bisogni più o meno espressi di comunicazione (come richiesta di attenzione, espressione di disagio o di calcolo strategico, almeno in certi casi!), sono certo un legame con i servizi del territorio e un carico, anche organizzativo per le comunità.
La crisi del mercato del lavoro ha poi, potenziato il problema del reinserimento, che sempre più spesso è un primo inserimento lavorativo, che si interseca con “i fine programma” e l’after-care sui quali da anni le comunità si confrontano. La possibilità di solidi rapporti con il Territorio e i suoi tessuti socio-lavorativi assumono una grande occasione di cambiamento, ancora non del tutto sviluppata.
Letta in chiave “postmoderna”  possiamo dire che le comunità  proiettate verso il futuro potranno ambire ad essere strutture iperspecialistiche (se non sanitarie)  relativamente a tipologie o cluster di utenti per cui i trattamenti psicoterapeutici hanno una gran parte. Tuttavia è prevedibile che accanto a sistemi accurati di valutazione e test di personalità, nelle comunità (come nella società in generale) in termini di sussidiarietà ritornerà, magari sotto altre spoglie, il principio antropologico  in virtù del quale fulcro è la persona umana, intesa sia come individuo che come legame relazionale. In termini post-moderni il singolo individuo può sviluppare e conservare nel tempo identità molteplici e complementari, potendo appartenere ad una o più comunità nello stesso tempo, secondo le proprie necessità interne ed esterne.
Nella comunità, luogo dove le persone interagiscono in uno spazio fisico condiviso, si possono delineare spazi privati in cui uno o più persone attribuiscono alla dimensione comunitaria un sistema di significati in grado di collidere o colludere con la vita comunitaria stessa, le sue regole e la sua vision. Non si tratta semplicemente di chiamarli “gruppetti” e liquidarli come tali.  Gli spazi privati sono concepibili in spazi piuttosto  simbolici, che garantiscono un certo grado di libertà ai soggetti rispetto al fare normativo o costrittivo della vecchia comunità ma che contribuiscono a porre nuove problematiche alle “nuove” comunità.
La designazione di spazi e di spazi privati o spazi mentali implica qualche precisazione: in questi spazi gli utenti pur interagendo reciprocamente tra loro, possono non appartenere alla stessa collettività e avere valori,  norme e regole legate alla propria origine culturale, sociale e geografica, e possono  contemplare “normalmente” forme di lotta per il potere o per il dominio. Basti pensare alla presenza di soggetti borderline o antisociali che svolgono, volontariamente o meno, il programma comunitario. Inoltre gli spazi mentali di ognuno “sono” dentro la spazio comunità e oltre le problematiche relazionali e di eventuale conflittualità, creano una  situazione analoga per certi aspetti, ad una presenza virtuale di utenti che aderiscono al programma formalmente, ma seguono obiettivi e strategie personali (leadership, tornaconti vari, etc,) per cui la comunità può difendersi con l’espulsione (quando possibile!)  o tentare di adattarsi, mantenendo il senso e il significato delle relazioni gruppali con gli altri soggetti, secondo i canoni del trattamento comunitario stesso.
Non sfugge che anche in questo caso c’è la sfida, intanto concettuale, tra opzioni del tipo aut aut rispetto alla possibilità  e/e : ossia o programmi specifici per quegli utenti o rimodulazione dell’idea comunitaria basata sui gruppi interagenti come base del concetto di comunità, con accesso a teorizzazioni più complesse. In entrambi i casi le soluzioni tendono ad assumere caratteristiche paradossali talora, oscillanti tra il senso virtuale di luogo, ancora una volta coscritto (di gruppi simili) e il senso di un luogo di integrazione, a partire dalla stessa  precarietà o perversione post-moderna delle situazioni. Un esempio semplificato è il senso di vuoto, che riferiscono in vari modi, gli utenti, e che pone un grande sforzo interpretativo  di fronte a fenomeni talvolta senza forma (shapeless) che passano nella loro testa e che solo lo spazio mentale in toto della comunità ha il vantaggio di “osservare” e rendere visibile e dialogico.
Insomma le esperienze più recenti hanno abituato le comunità ad una polifonia di utenti con diversità di intenti e fini, in cui l’incrocio di destini, di atti e pensieri poggia, tuttavia, su uno “sfondo continuo” (il basso continuo se fosse una metafora musicale) che ritma le ore del giorno, comprende l’essere là e comprende i rituali. Rituali che, rispetto al passato, non sono cancellati ma certo sono rimodulati e considerati più come indicatori del tempo che passa e del riconoscimento di una appartenenza al luogo, la comunità, piuttosto che portatori di simboli e regole. In altre parole la scansione del tempo e del senso di una comunità  necessita di parole proprie di ordine, di segni di convivenza e di intimità (almeno fra tutti coloro che sono capaci di penetrarne le ragioni e il vocabolario), perché è anche attraverso i rituali che ci si può definire  luogo identitario, relazionale, storico (M. Augè). Tuttavia il cambiamento che in primis coinvolge la tipologia e le aspettative dell’utenza, può fare sì che il luogo/comunità non sia percepito come spazio di identità, di relazione  e di storicizzazione della propria esistenza, assumendo le caratteristiche di non-luogo, produttore di transiti e di individualità solitarie all’insegna del provvisorio e dell’effimero se non all’insegna della mera richiesta di cure “sanitarie” per un corpo malato.
La comunità come luogo non esiste mai come forma pura, analogamente al non luogo, dato che nel quotidiano vi trova ugualmente ricomposizioni di relazioni e di strategie. E’ appunto in tale crocevia di intenzionalità tra luogo e non luogo che si colloca lo spazio comunitario come incrocio di mobilità e di animazione esistenziale in cui, in ogni modo si esplicitano esperienze di relazione con l’ambiente circostante. Quasi sempre tali esperienze sono riferite alla parola e ai racconti dei propri “viaggi”, non solo drogastici, ma di gesta, di descrizione di elementi personali e di vita di origine disparata, comprese le appartenenze illecite a gruppi devianti. Si vuole fare riferimento con queste osservazioni anche a quei campi del non-detto e dei segreti che circolano tra singoli utenti o tra piccoli gruppi di utenti e che tali possono rimanere, ma rappresentano una parte fondamentale della indagine relativa alla diagnosi, intesa come conoscenza attraverso gli eventi vissuti della vita, che marcano sia una parte del trattamento che la parte mitico-narrativa circolante nelle riunioni di staff della comunità per i life events o le scelte peculiari di vita di “quell’utente”.

Tali elementi non sono scevri di conseguenze: per esempio la modifica del rapporto con il territorio; infatti se nel periodo eroico le comunità “fuori dello spazio-territorio” seguivano la logica delle reclusione sociale dei tossicodipendenti, nel tempo i rapporti con e dentro il territorio hanno assunto relazioni decisamente dirette e le comunità sono significativamente orientate  ovvero stanno diventando “il luogo in cui gli individui possono soddisfare le loro esigenze fisiologiche, psicologiche e sociali”; in esse  i partecipanti devono avere pari diritti, le opinioni devono essere rispettate e  ogni partecipante può  trarre un vantaggio; anche attraverso lo scambio e la condivisione di esperienze altrui.  E’ questa una sfida da cui trarre un possibile vantaggio per esempio in termini di fiducia e di accreditamento: fiducia dell’utente nella struttura organizzativa della comunità rispetto alle esigenze (intanto mediche e terapeutiche) e fiducia della comunità rispetto alla propria tenuta di fronte alle diversità e accettazione delle scelte rispetto alla post-modernità, a partire dalle modalità dei consumi, dalle caratteristiche individuali degli utenti relative alla identità e alle loro necessità. La collaborazione attiva con i servizi sanitari e sociali del territorio diventa pregnante nei termini delle buone prassi ( specie SerT e CSM), ma anche Reparti ospedalieri, Servizi sociali, UEPE, Forze dell’Ordine, Tribunali, Avvocati, etc. Appare del tutto evidente che i rapporti tra tutte queste entità abitano contesti diversi e talora contraddittori, conseguenti a meccanismi di invio disparati e con aspettative spesso assolutamente diversificate, che hanno portato alla luce le “contraddizioni” e le esigenze di mutamento adattivo delle comunità stesse. Pertanto credo sia lecito chiedersi cosa guadagnano, ma anche cosa perdono le comunità terapeutiche?
Le relazioni con il volontariato hanno un ruolo importante, per la implementazione di scambi e possibilità e per la lotta ad uno stigma che, nel tempo, si è decisamente modificato con sfumature e caratteri variabili per territorio e per patologia specifica di addiction. Se è abbastanza lontana dalla realtà la comunità isolata (in senso geografico e socio-economico)  il territorio, più realisticamente,  è diventato un luogo di scambio, frutto di dinamiche interattive, dove gli individui agiscono.
L’apertura verso le concezioni del marketing sociale, inoltre, al di là delle prospettive assolutamente positive, pone delle domande per le comunità (vecchie e nuove): per esempio se le  attività produttive intraprese da una comunità debbano proiettarsi sul e nel territorio, magari seguendo un filone produttivo inserito in una filiera o se invece debbano fare parte integrante dei programmi comunitari stessi o solo di ipotetici programmi di post- comunità o di after-care. L’alone di possibilità può indirizzare verso la comunità/fabbrica o al contrario verso la comunità con trattamenti differenziati (almeno sul piano riabilitativo) o ancora verso l’idea di comunità dove gli utenti contribuiscono al mantenimento e potenziamento della struttura!
Se consideravamo assolutamente conclusa l’immagine di “Monasteri, prigioni e fabbriche”, per citare il libro di G. Contessa del 1988, dobbiamo rivedere quelle metafore anche nelle sperimentazioni di nuovi modelli di cura più articolati e complessi in sinergia con l’evoluzione delle problematiche di dipendenza specifica, di polidipendenza associate o meno a problematiche varie (personologiche, psichiatriche, mediche, legali e sociali).


Lo Spazio diventa luogo allorquando è usato, sono posti dei confini su di esso e vi vengono assegnati dei significati non solo culturali, ivi inclusi i diritti di proprietà.
Una comunità diventa un luogo terapeutico se ha obiettivi terapeutici:
luogo di ri-costruzione della persona  (nel senso di nuova identità, di risanamento delle ferite, di recupero di parti del sé, di ricomposizione di frammenti dell’io, di ripensamento di comportamenti passati,etc.);
luogo di perseguimento e costruzione di obiettivi specifici (che il soggetto ritiene per lui prioritari, che la comunità “calibra” sulle offerte e potenzialità del progetto e che realisticamente si possono raggiungere sulla base di “altre valutazioni” di  previsione e di secondo livello!);
luoghi di cura del corpo in primis e della rieducazione dei sentimenti (in particolare riequilibrio tra azioni/emozioni, tra compulsioni e impulsi);
luoghi misti di espiazione pene e riabilitazione (pene alternative, programmi vari).
Se i primi due punti sono o sono stati il punto di forza dei programmi comunitari, pur con necessarie riflessioni e bilanci, gli ultimi due hanno assunto particolare rilievo nella modifica delle problematiche, almeno di primo impatto, occorse agli ingressi comunitari. Le comunità non sembrano più, se mai lo sono state, dei contenitori compatti; assomigliano sempre più a spazi dentro spazi più ampi in cui trovare abitazione (nel senso di habitus, abito!), sulla base raccomandata dei progetti individuali personalizzati. La diversificazione delle tipologie di programma, secondo macrosistemi selezionati a monte, deve ancora risolvere lo scarto tra teoria e procedure, specie a livello di microsistemi comunitari, in cui vivere o abitare spazi mentali, più o meno percepiti da utenti e operatori genera quelle aporie di trattamenti, su cui è ancora necessario e utile lavorare ed elaborare nuovi paradigmi.
La ricerca di nuovi paradigmi impone, fra l’altro, la possibilità di formulare nuove domande o  di formulare in modo diverso le stesse domande intanto a livello “teorico”, ben sapendo che primariamente è la prassi quotidiana che determina nuovi bisogni e nuove domande che, a loro volta, richiedono nuove teorie e nuove procedure.
In conclusione
Le realtà delle comunità  proiettate verso il futuro non potranno limitarsi ad essere strutture iperspecialistiche (se non para o sanitarie)  ma hanno il compito di perfezionare l’impianto teorico e pratico dell’essere una comunità ( “la cosa”) di persone coesistenti. In questo contesto di analisi può essere lecito considerare l’affinità, intanto concettuale, tra i luoghi (comunità) in cui ci sono spazi (mentali, di esistenza!) e  non-luoghi, non solo nell’accezione che fornisce M. Augè ma anche nelle più sofisticate percezioni e proposizioni che “modulano” i non luoghi in veri e propri “altri luoghi”, come accennato nelle pagine precedenti. Certamente una tale implicazione introduce inquietanti variabili dentro una struttura comunitaria, anche in senso destrutturante se vogliamo! Considerare lo spazio-comunità come luogo ora terapeutico ora contemporaneamente un non-luogo può sembrare intollerabile; tuttavia se consideriamo proprio la quota di utenza più “difficile” non sorprende che, paradossalmente l’Altrove diventa la comunità, il non luogo, archetipo di un territorio poco esplorato, dove sperimentare nel bene o nel male.
Nello spazio comunitario si attua il luogo, ossia il divenire del percorso  e la sua stessa simbolizzazione in termini di miti e storia (come per esempio la ripetizione/rievocazione di esperienze precedenti), della differenziazione ed anche dello spaesamento. E’ in questa contiguità che il non luogo può riapparire anche come archetipo di un viaggio antropologico in cui il viaggiatore diventa vittima delle sue esperienze di solitudine e dei rifugi dei suoi spazi mentali. Da qui le possibili “prese di posizione” verso e dentro il passato ma pure l’ipotesi di una possibilità di avvenire.  Ogni utente, infatti, può esprimere o abitare, in una certa parte, il suo spazio mentale. Tuttavia tale abitare assume un campo di relazione particolare, specie in occasione della sovrapposizione tra non luogo e rimozione dello spazio mentale o meglio rimozione della propria singolarità a favore della figura dell’ego, della individualità così tipica della modernità. Forse non è casuale che tale assetto dispersivo sia più evidente nei disturbi di personalità e, tra questi, nei disturbi antisociali.
Quando gli elementi spazio-temporali infatti hanno una tale dispersione, anche il campo della relazione nell'analisi può avere una qualità di inaccessibilità e di irrealizzabilità particolarmente angoscianti e soprattutto caratterizzate dal senso dell'eternità, della immodificabilità e della paralisi. Se un paziente ci presenta molti elementi incollati e fusi attraverso i quali intravediamo condizioni di inesistenza e inesistibilità, di esperienze cancellate prima di avere luogo, egli non ci offre l'ancoraggio di una configurazione persecutoria riconoscibile: abbiamo a che fare con una persecutorietà diffusa e dettagliata; o proiettata in spazi esterni remoti; o espressa all'interno del corpo come spazio imploso che compendia e annulla le distanze; o vediamo un totale impoverimento e una paralisi di cui sappiamo solo che è stata prodotta da un collasso della funzione contenitore-contenuto, che continuamente si riproduce. Condizioni di panico, sensazioni emorragiche di perdita di sé; vissuti di autosvuotamento: come se si originassero da una intolleranza originaria a ospitare i fondamenti dell'identità, la quale piuttosto viene collocata in spazi adesivi, o limitrofi, o tangenziali, spesso multipli e privi in ogni caso di barriere, i quali fluiscono dal sé all'altro da sé con totale indifferenza alla discriminazione. Direi un nomadismo della mente, povero ma tenace nel rifiuto della stanzialità e sempre nuove preziosità da scoprire.
Direi che l’ incapacità a discriminare risale alla intolleranza del dolore e della
constatazione e che l'uso di questa confusione riguarda l'impossibilità della verifica, che sarebbe soverchiante. Così il percorso che va dal riconoscimento delle fonti sensoriali a quello della qualità delle fonti affettive e psichiche costituisce il perimetro obbligato entro il quale l'impossibilità a discriminare ed a soggettivare l'esperienza equivale alla coazione ad essere se stessi in quanto assenti, resi assenti e intesi a rendere assente l'altro. Koinòs Gruppo e Funzione Analitica, n.2, 1991.

Se la comunità diventa anche uno spazio reso inesistente dalla disgregazione e un  contenitore persecutorio,  o alternativamente il non-luogo della post modernità, si pone ancora una volta  il problema di una relazione che funga da ambiente nel quale non soltanto le comunicazioni dell’utente possano avere accesso e collocazione, ma dove lui stesso possa produrre quell'esperienza di sé che si costituirà come esperienza di un interno (sia corporeo che spaziale) possibilmente in grado di attivare un sistema motivazionale cooperativo.
Concludendo con le parole di Marc Augè: - è nell’anonimato del non luogo che si prova in solitudine la comunanza dei destini umani. Ci sarà dunque posto domani, o forse, malgrado l’apparente contraddizione dei termini, c’è già posto oggi per una etnologia della solitudine-.


Vinicio Romano